Rizzolino, Salvatore, 2017

Recensione di Salvatore Rizzolino, Angelus Domini nuntiavit Mariae. Poemetti mariani dimenticati fra Lagrime e Rime spirituali del Tasso; Appendice di testi mariani cappuccini tra XVI-XVII sec., a cura di Costanzo Cargnoni, Milano, Edizioni Biblioteca Francescana, 2017, pp. 615, [1], ill., in in «Miscellanea Francescana», I-II (2018) pp. 256-265; poi https://www.libreriadelsanto.it/libri/9788879622912/angelus-domini-nuntiavit-mariae.html

Testo della Recensione

La prefazione del libro a firma dell’alacre Giovanni Spagnolo offre con chiarezza l’idea della monumentalità dell’opera. Si tratta di un’opera che congiunge la vasta densità dei contenuti dei testi proposti dall’Autore, Salvatore Rizzolino, in cui emerge la puntigliosa indagine della loro storia editoriale e il meticoloso studio filologico, letterario e, in subordine, teologico, e l’abbondanza dei testi mariani cappuccini d’Italia tra i secoli XVI e XVII offerti in Appendice da Costanzo Cargnoni. Del resto, la mariologia vanta una vastissima letteratura, visto che essa tratta di una persona che ha un rapporto anche biologico con Gesù; e l’ampiezza di questo ambito editoriale comprende non solo opere di riflessione e di devozione, ma anche quello di arti visive e di poesia. Riguardo al presente volume di Salvatore Rizzolino, bisogna sottolineare che esso si è mosso, grazie ad una intuizione di grande importanza, lungo una precisa direttrice: presentare un ambito della letteratura, come si suol dire, “minore”: scelta condivisa e suffragata dal Direttore della Collana del presente volume, fra Costanzo Cargnoni, che raccogliendo una lunga serie di testi – e, si badi, si tratta solo di autori italiani, e neppure tutti, di un singolo Ordine e nell’arco soltanto di due secoli – ha convalidato oggettivamente la suddetta valutazione sull’immensità della letteratura mariana. Ho detto che l’idea è interessante, perché è la letteratura “minore” ad evidenziare la diffusione di una determinata tematica e nel caso della letteratura mariana il dato risulta particolarmente importante, perché offre la testimonianza della divulgazione circa un aspetto nevralgico della verità cristiana e circa i sentimenti di pietà relisiosa ad esso connessi.

Per il resto, se gli autori “minori” godono di una certa ingenuità nel senso che sono meno o per nulla preoccupati dell’immagine pubblica loro derivante, per altro verso anch’essi sono debitori degli indirizzi ideologici e stilistici del proprio tempo, anzi a volte sono allineati passivamente alla moda letteraria – fatta salva, e qui non si può tacerlo, un fecondo filone della letteratura cappuccina perlomeno del Cinquecento, a cominciare da quella istituzionale. Di fatto la poetica delle Lacrime, tra i secoli XVI e XVII, cui si aggiungeva il filone poetico delle Eccellenze di Maria Vergine a firma di Orazio Guarguante da Soncino (1554-1611), che il Rizzolino prende in esame all’inizio del volume, costituisce “un vero e proprio genere letterario”, come si è espresso Giovanni Getto in un libro del 2000, Il Barocco letterario in Italia. Salvatore Rizzolino illustra attentamente la fortuna editoriale di queste opere, che registrarono continuative riedizioni e ristampe per un ventennio a cavallo tra i due secoli anzidetti. Se il dato evidenzia l’interesse, all’epoca, del genere letterario in questione e se gli scritti e i loro autori sono stati dimenticati, come recita il sottotitolo del volume, l’Autore ha voluto appunto riportarli alla luce mostrandone anche alcune caratteristiche peculiari. Vediamone alcune.

Quanto alle “eccellenze di Maria”, esse coinvolgono il corpo e l’anima. Le eccellenze del corpo rientrano in una referenzialità letteraria riferibile ad autori consacrati dalla tradizione quali Dante e Petrarca, tanto che nei poeti presi in esame nel presente volume l’immagine di Maria risulta per le modalità descrittive sovrapponibile quasi completamente a quella della donna quale era la Beatrice dantesca o la Laura petrarchesca, osserva Salvatore Rizzolino. Ciò tuttavia non deve far pensare ad una forma di apprezzamento etereo e fumoso del corpo della Vergine: le parti corporee sono precisate con puntualità – trecce, ciglia, occhi, guance, “labbia”, denti, fronte, capelli, mani, dita, piedi, e poi “il riso pieno di dolcezza” –, tuttavia in un alone che, se appunto non è ieratico, è fine e delicato alla maniera, come si è rammentato sopra, stilnovista e petrarchesca, ad esempio in espressioni quali “begli occhi”, “celeste amor de’ suoi capelli”, “guance sue gentili”. Questa contemplazione della Vergine non solo nelle virtù morali e spirituali, ma anche nelle doti corporali ha conosciuto una specifica espressione devozionistica denominata salutatio membrorum.

Tra i frati cappuccini dell’epoca, intorno a questa pratica devota emerge Cristoforo Faccinardi da Verucchio (+ 1630) con un brano esplicito nel titolo stesso, «Venerazione delle membra di Maria», che si legge negli Essercitii d’anima, in prima edizione nel 1595. L’indicazione delle varie parti del corpo della Vergine è, in lui, direttamente relazionata a valori religiosi e soprannaturali, a iniziare dal capo e passando per il ventre fino ai piedi, come, per ricordare un esempio, il ventre, che per nove mesi fu “albergo della divinità incarnata”. In pratica, le parti del corpo da contemplare sono occasioni per tratteggiare la vita della Madonna nel suo rapporto con suo figlio e incentivi per suscitare la devozione verso di lei e verso Gesù.

Con piglio teologico di più alto livello, un altro frate cappuccino, san Lorenzo da Brindisi (1559-1619), decanta le singole parti del corpo di Maria con una vivacità più marcata, in quanto si serve della descrizione del biblico Cantico dei Cantici, originariamente e letteralmente redatto in riferimento a un innamoramento sentimentale di ordine fisico. Seguendo, di nuovo, il testo proposto da Costanzo Cargnoni nella sua accuratissima Appendice, diciamo che Lorenzo da Brindisi nella sua costruzione teologico-mariana, interpretando simbolicamente il testo biblico, identifica l’amante in Cristo e l’amata in Maria Vergine in quanto ella è “esemplare” della Chiesa, che è appunto sposa di Cristo; e siccome i connotati delle membra fisiche restano quelli del Cantico stesso, ne risulta una descrizione vivace e calda, per cui gli occhi “di colomba” sono accattivanti, anzi fulminanti (“colpiscono il cuore”), “ferendolo”; le “belle gote” sono succulenti spicchi rosei di melagrana; le labbra, nastro di porpora dal colore intenso; i seni come due cerbiatti; l’ombelico come rotonda coppa, il ventre un mucchio di grano, i fianchi sono monili, e il tutto in un alone di ebbrezze odorifere. Da notare un dato: l’elencazione delle membra, in san Lorenzo, come nell’altro frate sopra nominato, Cristoforo da Verucchio, rispecchia quella che risponde alla definizione di “canone lungo” della bellezza muliebre e che si attribuisce al Boccaccio, mentre l’enumerazione compiuta da Orazio Guarguante da Soncino nelle Eccellenze di Maria Vergine rimanda alla codificazione attribuita al Petrarca e che, definita “canone breve”, giunge fino al Rinascimento per la descriptio puellae sulla “perfetta bellezza”. Questa differenziazione, indicata e bene esposta da Salvatore Rizzolino, è spiegata dal medesimo nel senso che la descrizione secondo il “canone breve” ha di mira lo splendore del corpo femminile, mentre quella secondo il “canone lungo” ammette la predicazione sia dello splendore, sia della proporzione delle parti del corpo. Questa specificità serve a comprendere l’osservazione avanzata sopra, cioè che si tratta di una ammirazione del corpo di Maria non già eterea e vaga, ma somatica e precisa.

Orazio Guarguante da Soncino è presentato ed esaminato, appunto, da Salvatore Rizzolino, il quale ne evidenzia ampiamente e puntualmente le connessioni tra le Eccellenze di Maria Vergine e La vita di Maria Vergine di Pietro Aretino (1492-1556), di cui il poemetto del Guarguante risulta, nella comparazione concettuale e testuale, una “riscrittura poetica”. La derivazione guarguantiniana dall’Aretino si arresta però, con una vera e propria sorta di censura, precisa il Rizzolino, al limitare in cui lo sviluppo scenico tende a volgere verso vibrazioni più sensuali, come in quell’aretiniano muoversi del vento che scopre parte delle gambe, delle ginocchia e dei fianchi – perché, come si sa, non sono di per sé tali parti corporee ad essere conturbanti, quanto lo è l’inaspettato e “mosso” loro disvelamento – e, a ciò connesso, quell’aderir dell’abito leggero al corpo al medesimo spirar del procace vento. Come si nota, se l’Aretino, pur nella sua pietà mariana, inclinava verso le beltà delle Cariatidi ateniesi, il Guarguante seguì invece le orme di quel “dolce di Calliope labbro” che adornò la poesia greca e romana “d’un velo candidissimo”, come cantò il Foscolo a proposito del Petrarca.

Non possiamo concludere questo tema della contemplazione della bellezza corporea di Maria senza rammentare un’altra modalità di approccio alla laudatio, che è quella di altri due cappuccini, come risulta di nuovo dal prezioso apporto di Costanzo Cargnoni. Mariano Orofino da Alcamo (+ 1622) e Giovanni Maria Zamoro da Udine (+ 1649) pur in età barocca sono molto compendiari, estranei alla veneratio membrorum. Mariano da Alcamo, nel Modo di contemplare la corona di Maria Vergine, un testo di predicazione tenuta nel 1608 e pubblicato nel 1611, enumera, pur tuttavia, le singole membra del corpo, anch’egli secondo il “canone lungo” ormai impostosi nel ‘600, ma osservando semplicemente la loro “proporzionalità” per dedurne, sempre in sintesi, che per tale complesso somatico si addiceva a Maria la qualifica di “bella”. E Giovanni Maria da Udine, autore del De eminentissima Deiparae Virginis perfectione, del 1629, aggiunge all’affermazione dell’“ottima costituzione fisica” di Maria il motivo di questa perfezione: poiché dal suo corpo doveva essere formato il corpo stesso di Dio, come egli afferma testualmente.

Altrettanto sviluppate risultano, nell’esposizione di Orazio Guarguante da Soncino, le doti dell’anima di Maria, che sono “incomprensibili”, “uniche”, stupende”, persino “divine” e “infinite” (Eccellenze di Maria Vergine, III, 1ss.) in quanto infuse in lei dal Cielo “a piene mani” (XXI, 7). A proposito di quest’opera del Guarguante, Salvatore Rizzolino rileva un elemento che non va obliato, in quanto proietta il discorso su una problematica, dibattuta all’epoca, circa l’astrologia. Senza tuttavia soffermarci sull’argomento, è da segnalare, come sottolinea l’Autore, che era un ambito in cui bisognava stare molto attenti, considerato l’intervento di Sisto V che nel 1586, proprio all’inizio del medesimo anno dell’edizione del volume in cui comparivano le Eccellenze di Maria Vergine del Guarguante, con la Bolla Ceoli et terrae creator censurava tra l’altro i pronostici fondati sugli influssi astrali. Il Guarguante però procedeva con sicurezza per competenza scientifica e, enunciata la tavola astronomica nella sua più completa definizione – così assicura Salvatore Rizzolino – (“Segni, stelle, pianeti, sfere, fati / Gerarchie divine in nove schiere”, Eccellenze di Maria Vergine, XXI, 1-2), dichiarava che l’anima di Maria era frutto dei “benigni influssi, in ciel serbati” (ibidem, XXI, 5) e che i cieli le “infuser tutti i doni sopraumani” (ibidem, XXI, 8). Se, come avverte il Rizzolino, l’incidenza degli influssi astrali poteva comportare complicazioni teologiche a proposito della Madonna – quasi che si potesse sospettare che qualcosa, in lei, non dipendesse da Dio ma fosse derivato e determinato dagli astri (una preoccupazione dell’epoca, tuttavia, che secondo me è insensata) –, il poeta da Soncino era comunque attento a precisare che il tutto avveniva per divino consiglio. Dunque, nulla sfuggiva all’opera di Dio. Il che è inevitabile.

Quanto alle eccellenze dell’anima di Maria, è ben comprensibile che ne abbiano parlato tutti gli autori di tematiche mariane. Il nucleo essenziale e fondativo della sua eccellenza è posto, come dice con semplicità e chiarezza il frate cappuccino Maria Bellintani da Salò (+ 1611) segnalato da Costanzo Cargnoni nella sua ricchissima Appendice, nell’“esser Madre di Dio” (Della Immacolata Concettione di Maria Vergine, Predica IV). Nel suo voluminoso Mariale, san Lorenzo da Brindisi arriva a definire “quasi infinita” l’eccellenza della Vergine Maria, al punto che “sembra che Dio stesso lodi con profonda ammirazione la Vergine santissima, e si direbbe che lasci intendere che a stento lui stesso può magnificarla come conviene”; e il motivo è ancora il medesimo che abbiamo visto in Mattia Bellintani da Salò e che è affermato universalmente, cioè che la dignità di Maria discende dall’esser Madre di Dio, tale per cui “angeli e uomini insieme non possono arrivare a comprenderla, come pure è impossibile scandagliare l’infinita dignità dell’umanità e della persona di Cristo” (Sermo quintus: De dignitate mysticae Civitatis Dei Mariae).

Considerando il genere letterario delle Lacrime, nello studio di Salvatore Rizzolino abbiamo come autori Erasmo da Valvasone (1510-1568) con le Lagrime di S. Maria Maddalena; Angelo Grillo (1557-1629) con il Lamento di Maria Vergine e con le Lagrime del penitente; Torquato Tasso (1544-1595) con le Lagrime di Maria Vergine Santissima, e di Giesù Christo Signore (uno scritto datato tra il 1592 e il 1593), dei quali sono illustrate con molta cura e puntualità le vicende editoriali. A proposito del Lamento di Maria Vergine di Angelo Grillo, Salvatore Rizzolino focalizza tra l’altro un particolare che risalta nella incisione della crocifissione – di per sé obbligata, nelle composizioni da planctus Mariae – inclusa nel testo poetico: lo svenimento di Maria, che non risulta in alcun testo evangelico e che anzi era ritenuto inopportuno secondo le raccomandazioni pastorali scaturite dal Concilio tridentino, benché – osserva sempre l’Autore – all’epoca vi si fece spesso e volentieri ricorso, soprattutto nelle opere letterarie piuttosto che in quelle iconografiche. A proposito dell’incipit della canzone di Angelo Grillo che indica la Madonna con le braccia aperte (“Le braccia aperse”), Salvatore Rizzolino instaura una felice connessione con il sonetto della poetessa e marchesa Vittoria Colonna (1490-1547), Le braccia aprendo in croce, e l’alme e pure. Si tratta del sonetto di Vittoria Colonna collegabile al disegno della Pietà realizzato da Michelangelo Buonarroti per la stessa marchesa e “musa” delle proprie liriche: nel disegno michelangiolesco, la Madonna, seduta, mentre tiene appoggiato sulle gambe il figlio morto, è presentata appunto con le braccia aperte in atteggiamento tradizionalmente orante.

Dunque, tre caratterizzazioni della Madonna: svenuta, orante, lacrimosa. Torquato Tasso consacra un modello di pianto che è come un “dono” a Gesù del proprio amore, distaccandosi da quello che era il modello del pianto riparatore o purificatore, il pianto del peccatore contrito, su cui insistevano, peraltro con grande successo editoriale, altri poeti quali Luigi Tansillo (1510-1568) con le Lacrime di san Pietro ed Erasmo da Valvasone con le Lacrime della Maddalena. Benché dalle narrazioni evangeliche non consta che la Madonna abbia alcuna volta pianto e benché l’inizio della succitata canzone tassiana dichiari che a distillare “dagli occhi” l’amaro pianto di Maria furono la grande afflizione (“alto dolore”) e l’“aspro martir che le trafisse il core”, e benché anche nella canzone tassiana compaia il concetto del pianto come riparatore del peccato (“in lacrime lavando il vostro errore”), ovviamente riferito ai fedeli, la prospettiva si allarga ad una partecipazione di tutto il creato (tuttavia, precisa Salvatore Rizzolino, già del Valvasone e di Jacopo Sannazzaro, 1457-1530) al “dono” che fa la Madonna di se stessa – nel ricordo dei momenti salienti della vita di Gesù –, un dono che è, a sua volta, intrinsecamente apportatore di salvezza.

La tematica della Madonna addolorata non poteva mancare, nei secoli – anche se qui ci si occupa soltanto di due secoli – nell’Ordine cappuccino particolarmente sensibile ai patimenti di Gesù e di conseguenza ai dolori di sua madre, visto che ella era “tutta legata al Figlio Crocifisso”, rammenta Costanzo Cargnoni in Letteratura mariana cappuccina nell’Italia del Cinque e Seicento, il saggio introduttivo ai testi mariani cappuccini, citando Giuseppe Taverna da Cammarata (+ 1677): “tutte le pene del Figlio erano epilogate nel cuore della Madre”. Nella considerevole letteratura dell’Addolorata a firma di frati cappuccini non manca neppure il particolare delle lacrime – ciò che qui interessa in riferimento a quanto esaminato sopra. Su Maria piangente si è espresso con semplicità di parola e con calore di spirito l’illetterato cappuccino Tommaso da Olera (+ 1631): non con versi alati o con discorsi lirici ma con insistente affetto egli, in prosa, prese a rimirare l’“afflitta ed addolorata madre a’ pie della croce piangendo e singultando”, anzi “angonizzando” (così, letteralmente) mentre ella “rimirava Gesù con li occhi suoi pietosi” e di nuovo quando ebbe tra le braccia il Figlio deposto dalla croce, come riferisce Costanzo Cargnoni, citando. “Oh quante lacrime Maria dovette spargere […]”, e “con raggione potevi ben piangere”, continua in Scala di perfezione il beato Tommaso da Olera rivolgendosi direttamente a lei. In versi solenni da poema sacro, invece, il frate cappuccino Pietro Citi da Martina Franca (floruit 1645), definito dal curatore Costanzo Cargnoni “più un poeta che un predicatore”, ne La Vergine saettata, del 1645, vede Maria “Madre piangente” e parla di “mesto pianto” nel «Poema di Maria Addolorata», che è il primo Canto del poema cui fanno seguito altri due Canti dai titoli strettamente legati all’argomento di cui qui si tratta: «La Vergine sospirante» e «La Vergine lagrimante». Ne «La Vergine lagrimante» egli, dando voce a Maria con immagini di vivida fisicità tra il latte un tempo offerto dalle sue “poppe” al piccolino, il pianto che sgorga, adesso, dai suoi occhi per offrilo alle “bocche” del figlio in croce, cioè alle crudeli piaghe insanguinate, il cappuccino, mediante immagini realistiche che al contempo sono efficaci simbologie esistenziali, esprime metaforicamente il concetto che la partecipazione della madre al dolore redentivo di Gesù è costituito dal “dono” di sé al Figlio per la redenzione universale. Si ha, qui, la versione lirica di quel concetto secondo cui il fedele partecipa al “dono” che fa l’Addolorata, di sé, a Gesù, sì che il poeta offre il proprio pianto (“Io canterò piangendo”, «Poema di Maria Addolorata», 31), proprio come autore, oltre che come figlio e discepolo di Maria. Circa il pianto della Madonna non posso sottacere il punto di vista di un altro frate cappuccino, Bernardino Ochino da Siena (+ 1564), il quale, pur ritenendo “estremo” il dolore di Maria, durato, egli tiene a sottolineare, tutta una vita in cui ella era come sospesa nell’attendersi il quando sarebbe avvenuto il doloroso epilogo e pur sostendendo che “dal giorno che ‘l fu posto in croce, [ella] aveva le spine, gli chiodi e la lancia continovamente nel cor suo” ed “ogni volta che la risguardava Cristo, sentiva tanta amaritudine il cuor suo” – un tratto psicologico finissimo, questo dell’Ochino –, ella tuttavia “sentì in sé la Passion di Cristo […] non però in quel modo che dicono alcuni, che la gridava […], ma stava cheta […]”, insomma sempre composta. Così l’Ochino si figura la Dolorosa “prudentissima”, come egli la qualifica nella Predica predicata in Vinegia il sabbato dopo la domenica di Passione, nel 1539, come leggo sempre nel testo offerto da Costanzo Cargnoni.

Un particolare ambito mariano presente nelle opere studiate dall’Autore, Salvatore Rizzolino, è quello legato al santuario di Loreto. Egli lo illustra attraverso il poemetto Alla Santissima Vergine Annunziata nella sua Santa Casa di Loreto di un “illustre dimenticato” del Cinquecento, Nicolao Tucci: un poemetto inscritto, a chiusura dell’edizione, nel volume delle Rime spirituali di Torquato Tasso. L’inserimento del testo di Nicolao Tucci in una edizione tassiana se, per un verso, denota l’importanza di questo autore, d’altro canto ha concorso ad eclissare la memoria del testo che è stato ancor più obliato del suo autore stesso, in quanto, rientrando esso in un volume di un autore diverso, appunto il Tasso, per giunta ben più conosciuto e famoso, il poemetto del Tucci si è un po’ perduto nella considerazione dei posteri. Il Rizzolino riesce egregiamente a togliere dal dimenticatoio un autore, per il vero, interessante, percorrendone la vita degna di menzione – fu uno storico di Lucca, politico e diplomatico, sia del Ducato di Lucca, sia dello Stato pontificio in cui ricevette il titolo onorifico di protonotaro apostolico ed ebbe l’incarico di luogotenente del Cardinale camerlengo, e fu un letterato che ottenne nel suo tempo “non piccola gloria”, come tramanda lo storico lucchese dell’800 Cesare Lucchesini citato dall’Autore.

Il poemetto mariano del Tucci fu edito più volte in volumi di vari autori, oltre il Tasso, tra i quali Bruto Guarini da Fano e Cesare Franciotti che vantano diverse edizioni e ristampe dal 1592 al 1627. Dunque, si tratta di un poemetto che ha conosciuto notevole considerazione. Quanto alla sua qualità interna, il giudizio di Salvatore Rizzolino è che si tratta di un testo “tutto teologico”, al punto che il poeta Tucci scarta del tutto ogni celebrazione artistica del santuario ed evita stilemi specifici della lirica amorosa profana. Un elemento focale rilevato dal Rizzolino è il pronome locativo “hic”, “qui”, già visibile nell’iscrizione a caratteri cubitali posta nella cappella lauretana: un pronome già usato da san Girolamo a proposito della nascita di Gesù, che vale ad esprimere l’Incarnazione come fattualità all’interno dello spazio terrestre. L’indicazione di “cella” data dal poeta Tucci alla casa di Maria costituisce una proiezione teologica inscrivendo la vita di lei, nel suo luogo domestico, in un’atmosfera spirituale di meditazione e di preghiera, celata in “luce divina” (Alla Santissima Vergine Annunziata nella sua Santa Casa di Loreto, VIII, 1).

La verginità della Madonna, cantata con chiare espressioni dal poeta, osserva il Rizzolino, all’epoca della stesura del poemetto è da ritenersi ribadita non solo come ovvia sequela di tutta la tradizione cristiana, ma anche in termini apologetici antiereticali, visto che solo qualche anno prima, nel 1555, era stata emanata da Paolo IV la Costituzione apostolica Cum quorundam hominum che condannava la tesi della nascita naturale di Gesù sostenuta palesemente dagli ebrei, contro la cui esposizione filologica del termine ebraico corrispondente al latino virgo si profuse, all’epoca del nostro poeta, il domenicano Domenico Paolacci (1583-1646), come rammenta Salvatore Rizzolino. Cauto, invece, il poeta Tucci circa l’immacolata concezione – “È fatta immune da l’antiche some / O liberata almen, quando concetta” (ibidem, V, 3-4) –, poiché all’epoca, come ragguaglia puntualmente il Rizzolino, l’idea della preservazione ab eterno di Maria dal peccato originale, quindi già prima dell’infusione dell’anima nel corpo, non era universalmente accolta e anzi era esplicitamente negata da Tommaso d’Aquino, del quale Nicolao Tucci seguiva la dottrina in molti punti teologici e mariologici, come espone in più parti il medesimo Rizzolino. Problematica era all’epoca anche la connessione simbolica della donna dell’Apocalisse XII, 1-6, con la Madonna, per cui Nicolao Tucci si limitò, come del resto facevano anche altri poeti, a indicare la Vergine Maria come coronata di stelle (“Stelle / Ch’or corona a te fanno”, ibidem, X, 4-6).

Si pensi che quando il frate cappuccino Giovanni Maria Zamoro da Udine pubblicò a Venezia nel 1626 un trattato in difesa del privilegio dell’Immacolata Concezione, il De eminentissima Deiparae Virginis perfectione – concepito, per ironia dei tempi storici e delle circostanze, dopo un pellegrinaggio a Loreto –, suscitò tali “subbugli” – così esprime Costanzo Cargnoni da cui traggo la notizia –, da essere convocato dal sant’Ufficio a Roma, e comunque nel 1636 il suo scritto fu proibito dalla Congregazione dell’Indice. Solo per citare qualche frase, aveva scritto tra l’altro: “[…] per grazia del quale [Figlio] è stata preservata dal peccato”, ab eterno, come Cristo, benché immediatamente in dipendenza da lui: “Ciò premesso, vale a dire che Cristo Signore sia venuto per primo nel mistero della divina predestinazione, si potrà facilmente comprendere per quale ragione la Vergine Madre di Dio sia stata predestinata subito dopo di lui e prima di tutti gli altri”, perché il legame “di stretta necessità” che univa Madre e Figlio “esigeva come necessaria conseguenza che la predestinazione del Figlio comportasse anche quella della madre”.

Salvatore Rizzolino tiene ad aggiungere che successivamente al tempo di Nicolao Tucci le posizioni ai vertici della Chiesa cambiarono, al riguardo. L’8 dicembre 1661 Alessandro VII emanò il Breve Sollecitudo omnium Ecclesiarum in cui dichiarava l’anima della beata Maria Vergine preservata dal peccato originale nella sua stessa creazione, ma già precedentemente la posizione era invertita, rispetto ai suddetti tempi del Tucci, durante il pontificato sia di Paolo V (1605-1621) che proibì la predicazione negazionista dell’immacolata concezione di Maria, sia di Gregorio XV che nel 1622 la vietò anche nelle discussioni tra dotti. Nella letteratura a firma di frati cappuccini, tuttavia, già prima della dichiarazione di Alessandro VII non mancano precisi sostegni alla dottrina della concezione immacolata di Maria, del resto in linea con la scuola francescana che risaliva a Duns Scoto. Maria Bellintani da Salò (+ 1611), in una predica dal titolo esplicito, Della Immacolata Concezione di Maria Vergine, rimasta inedita fino al 2010 quando fu pubblicata dalle Edizioni Collegio San Lorenzo da Brindisi a cura di Roberto Cuvato (“La Parola fa la strada a Christo”. Le prediche inedite di Maria Bellintani da Salò) – come leggo nella preziosissima Appendice di Costanzo Cargnoni –, scriveva: “Il sacro mistero dell’Immacolata Concezione è un profondo abisso, pericoloso da varcare” – ammetteva! -, “difficile da intendere”; abisso, sì, ma certo è che “questa concettione di Maria” è il “primo principio” tra i “giudicij” di Dio “riguardanti l’opera della redenzione” in cui Dio ha decretato di “preservar Maria”, sì che “dalla concezione di Maria ha cominciato la grazia ad uscire agli effetti di salvare gli uomini”. Nella stessa predica il Bellintani offre un suo ragionamento al riguardo, partendo da un punto dogmatico assodato: “[…] sì come non ebbe mai peccato attuale (è decreto di S. Chiesa) così parimenti non ebbe mai l’originale; che impossibile sarebbe non cadere in quello se fusse generata in questo”. Un altro cappuccino di Salò, Alessio Segala (+ 1628), in un testo del 1612, Corona celeste, come desumo sempre da Costanzo Cargnoni, affermava: “Se noi miriamo la Vergine come figliuola d’Adamo, doveva contrahere il peccato originale […]; nondimeno non ci incorse e fu preservata e prevenuta con la grazia soprannaturale del Signore, che ab eterno l’aveva per sua Madre predestinata e con singolar privilegio la fece esente da quella general legge, che comprendeva tutto il genere umano”. In chiave più dotta e in lingua latina, il frate cappuccino Marcantonio Galazzi da Carpenedoli, che fu anche vicario generale dell’Ordine dei frati minori cappuccini, nel 1636 in Novum de Immaculata Virginis Conceptione encomium argomentò i motivi di convenienza della concezione immacolata di Maria, che in sostanza coincidono con il ragionamento che abbiamo letto nei precedenti brani.

Se all’epoca di Nicolao Tucci era controversa la dottrina della concezione immacolata di Maria, non lo era la sua “regalità”. Il Tucci poeta la designa “felice Regina”, unitamente a “lieta Amante”, e la connessione non è solo lirismo, perché – riflette Salvatore Rizzolino – la regalità di Maria è connessa all’essere anche la “Sposa” di Dio. Felicemente, il Rizzolino supporta il pensiero teologico espresso dal poeta con le risultanze testuali mostrando così la stretta unità tra pensiero e forma ed inoltre allarga lo sguardo sul piano storico ed iconografico circa la Vergine incoronata in cielo, cui segue quasi per logica il titolo mariano di “Stella del mare”, poeticamente già sfruttato dal Petrarca al cui seguito si pone il Tucci.

Salvatore Rizzolino contestualizzando nella sua globalità il poemetto di Nicolao Tucci lo inscrive non solo nel tracciato dottrinale postridentino, ma anche nel fervore di spiritualità mariana suscitato da san Giovanni Leonardi (ca. 1541-1609). Nell’ambito di questa esposizione condotta con molta chiarezza e con profondità di pensiero egli rammenta una curiosa notizia la quale, se per un verso è irrisoria, per altro verso è significativa non solo di quanto sia fervida l’inventiva umana, ma anche di quanto sia irrefrenabile la credulità che ne va al seguito, ed è poi utile per valutare notifiche di particolari dati o eventi che vengono formulati, qua e là, anche ai nostri giorni. Ma qui vediamo la fattispecie di quel tempo, tra il 1472 e il 1520, le date di nascita e di morte di Elena Duglioli. Costei ebbe una “rivelazione divina” – questo lo disse lei e solo lei sapeva, ovviamente, che era divina –, secondo cui la Madonna ebbe a concepire Gesù non nel grembo, ma vicino al cuore, esattamente “appena a tre gocce di sangue”. La sensazionale notizia conquistò il cuore del padre spirituale della raccoglitrice di misteri, Pietro Ritta (+ 1522) dei canonici regolari lateranensi, che con entusiamo divulgò la bella novella. Il Tucci, cui era nota tale prelibatezza fisiologica, ne prese le distanze e prese le distanze anche da una caratteristica, di cui era fiera la visionaria stessa (ne era “consapevole”, dice il Rizzolino), cioè di essere sposa e vergine come santa Cecilia; e poiché la condizione congiunta di vergine e sposa è la medesima della madre di Cristo, anche su questo aspetto il Tucci ebbe a specificare che sì, si può essere pure spose e vergini al contempo, ma che ciò è ben diverso dalla verginità sponsale e feconda di Maria, conclude giustamente Salvatore Rizzolino.

Rammento infine l’opera del Tasso. Insieme alla canzone A la beatissima Vergine di Loreto, le sue poesie “spirituali” si collocano in un periodo biografico caratterizzato dalla grave malattia di natura psichiatrica che afflisse il poeta al tempo della permanenza, a partire dal febbraio del 1579, nell’ospedale di Sant’Anna e, in seguito, al tempo della fuga da Mantova verso Roma nel 1587, quando, passando per Loreto, il poeta scrisse la canzone lauretana. Si tratta, osserva Salvatore Rizzolino, di poesie la cui occasionalità è radicata in una sfera di intimità sofferente. Non sfugge a questa condizione neppure la canzone lauretana, la quale, pur insistendo preponderantemente sugli aspetti artistico-architettonici del santuario – in cui il poeta ha modo di esplicare la sua erudizione classicheggiante e letteraria per i paragoni che instaura tra il tempio lauretano e i corrispettivi e, sul piano religioso, antitetici monumenti antichi –, si articola su registri decisamente esistenziali più che su quelli di ordine teologico. Le prerogative mariane, ad esempio quella di stella e di stella maris, o quella di regina che siede al di sopra dei celesti cori (A la beatissima Vergine di Loreto, 107), sono sempre riferite in rapporto al bisogno e alla speranza del poeta di essere aiutato da lei, da Maria, e a lei egli spesso si rivolge direttamente, dandole del tu, con confidenza e fiducia, con tanto tremore e paura di essere di nuovo, ed ancora, e magari per sempre, sopraffatto dalle ossessioni furiose, dagli sconvolgimenti della psiche, dai turbamenti mentali. Questo sfondo esistenziale cade in un momento in cui il poeta è fuggito, fuggito da Mantova, dopo anni in cui era stato trattato da pazzo, e la canzone A la beatissima Vergine di Loreto consegue all’adempimento di un voto di ringraziamento del malato per essere stato guarito dalla Madonna all’ospedale di Sant’Anna. In una delle liriche mariane delle Rime spirituali, Egro io languiva, e l’alto sonno avvinta, il Tasso parla della visione – “allucinata”, precisa Salvatore Rizzolino – della Madonna con Gesù bambino in braccio, che lo guarì. La narrazione si ripresenta nel madrigale Non potea la natura e l’arte omai, in cui rivolgendosi alla “Vergine gloriosa” egli la dichiara “del mio dolor pietosa”, e in effetti a lei, in un sonetto della medesima raccolta, Diva, il cui Figlio del gran padre è Figlio – che ripropone il concetto espresso in testi mariani da Dante e dal Petrarca –, si rivolge così: “soccorri pietosa al mio periglio”. Nella conclusiva canzone lauretana il poeta riconosce appunto il soccorso ricevuto e per il quale egli si è recato al santuario: “Maria, pronta scendesti al mio dolore / perché non fosse l’alma oppressa e vinta”.

Potrebbe essere stato, per davvero, allucinato Torquato Tasso, quando vide la Madonna che lo guariva; ma io mi auguro che se ne possano trovare, in giro, un po’ di più, un po’ di più di simili persone allucinate, che accanto alla Vergine Maria scrivono così bene cose buone. [Francesco Di Ciaccia]