Senardi, Ulivi, 1989
Due testi utili sul D’Annunzio. La posizione storica di D’Annunzio. “Perché m’è l’alba imagine di morte”, recensione di Fulvio Senardi, a cura di, Il punto su: D’Annunzio, Bari-Roma, Laterza, 1989, pp. 184; Ferruccio Ulivi, D’Annunzio, Milano, Rusconi, 1989, pagine 392, «Rosetum», 12 (1990) pagine 24-25.
In sovraccoperta di Ferruccio Ulivi, D’Annunzio: Romaine Brooks, Gabriele D’Annunzio, le poète en exil, 1912 (foto del Museo nazionale d’arte moderna di Parigi)
Testo della recensione
Perché D’Annunzio? Perché egli oggi appare, dopo trent’anni di emarginazione, presso il gran pubblico e nelle scuole. Scomodo precursore del fascismo, egli fu esorcizzato fin dalla morte (1938): si cercò subito di dimenticarlo, anche perché, ad onta degli equivoci, non corse affatto buon sangue tra lui e il regime. In seguito fu studiato solo da un manipolo di “nostalgici”, mentre la massa lo identificò superficialmente con il fascismo, i critici lo archiviarono alla spiccia come “retorico” senza idee, e la società, nel secondo dopoguerra, lo sentì lontano dalle nuove “preoccupazioni” e poi dal nuovo “gusto”. Negli armi ‘50, tuttavia, la critica marxista ha avuto il merito di elaborare, al di là dell’approccio stilistico di matrice crociana, un ritratto organico del D’Annunzio in riferimento al quadro storico, ideologico e culturale, individuandone sia le caratterizzazioni umane e psicologiche, sia i modelli artistici in rapporto all’epoca. Ma D’Annunzio ha segnato di sé, soprattutto, l’ideologia della vita: un’ideologia “decadente”, non tanto nel segno del vitalismo più appariscente, quanto in quello della paura della morte, della sua esorcizzazione attraverso i miti e i riti della vitalità e della conquista ad ogni costo. Ed è questa, appunto, la dimensione esistenziale, sia pur sottesa, che s’agita all’interno delle sue opere narrative. Il significato della “sensualità” dannunziana esprime il bisogno di “aggrapparsi alle cose”, ossessivamente, per sfuggire alla coscienza dell’irrefrenabile smottamento dell’io: un “io”, d’altronde, che si propone e si ripropone nelle incessanti incarnazioni poetiche, ombre fuggenti e ossessive delle molte personalità dell’Autore. Divergenti che siano le interpretazioni sul D’Annunzio, è notevole – e per alcuni stupefacente – che la sua opera torni a interessare la gente. Riflettendo su questo dato, si può ammettere come autentica l’importanza, sentita dall’Autore, del suo contatto con il pubblico. Con il pubblico – scriveva ad Hérelle nel 1896 – io sono “nel contatto più diretto e immediato”; e ne rivelava anche il segreto: la capacità di “metamorfosi”, di cambiare volto, registro linguistico e problematiche. In effetti D’Annunzio fu al massimo grado, tra gli scrittori e opinionisti del primo Novecento, capace di recepire e di modellare, pur sempre a sua immagine e somiglianza, i temi più disparati e i generi letterari più diversi.
“Perché m’è l’alba imagine di morte?”
Queste parale, nell’exergo del volume di Ferruccio Ulivi, D’Annunzio, Rusconi 1988, mettono a fuoco la direzione dell’indagine biografica dello studioso, che scandaglia nel tumulto esistenziale di una “Vita inimitabile”: “inimitabile”, soprattutto perché comprende “molti uomini in un solo individuo”. Mi piace sottolineare fin dal principio questo concetto, perché esso è stato una prospettiva ermeneutica di un mio studio sul francescanesimo dannunziano. Le connessioni tra arte e vita son troppo strette, in D’Annunzio, per non indurci a definire la prima come immagine proiettiva della seconda: e l’Ulivi è accuratissimo nel congiungere la vicenda umana e la produzione letteraria dello scrittore. Ma è anche vero – e l’Ulivi lo fa ben comprendere – che l’immaginifico trascende anche la vita, ne è la trasfigurazione rispondente più al bisogno di vita che alla vita stessa.
Del resto, anche nelle sue vicende quotidiane, banali o illustri, D’Annunzio si identificò in atteggiamenti non veri: o meglio, che eran suoi, e perciò veri, in quanto egli era davvero, nella sua natura, “tanti atteggiamenti”. Ad esempio, fare debiti, pur avendone già altri, con l’aria di chi non ha debiti, era un modo di porsi come uno che fosse ricco: e tale era, in effetti, perché il “Vero” per lui era l’immagine che egli dava di sé. Non è detto perciò che D’Annunzio mentisse; quando diceva una cosa diversa dalla realtà era sincero, come è sincero un attore che recita tanti ruoli quanti davvero sono i personaggi dentro di sé. La vita per D’Annunzio è spettacolo: ed egli amava rappresentare proprio questa vita.
Una delle trame più frequenti di questo spettacolo riguarda le relazioni con le donne. L’Ulivi qui scandaglia con grande finezza e con l’occhio sempre vigile, entro le essenziali annotazioni di cronaca, all’avventura interiore dell’uomo. E già! Perché tutto, per D’Annunzio, era “segno” della vita, una vita inseguita con furore, cercata con ingordigia, mai scoperta del tutto. “Tutto fu ambito / e tutto fu tentato”. E nella sua fame di vita, intrisa di tutto, dalle doppiezze e dalle ingenuità sconfinate e sconfinali, l’uomo D’Annunzio, alla ricerca esasperata e magari disperata di sé, è reso – così splendidamente l’Ulivi – “inaccoglibile e indiscutibilmente autentico”. Un’idea anche a noi cara, nell’interpretazione dannunziana. Fatalmente sospinto a inseguire la vita per la vita e la vita stessa per il proprio “genio”, D’Annunzio fu incapace di pervenire a una coscienza di sé come “cuore”, partecipe di vite altrui. Uno può essere solo quello che è. Mi piace che l’Ulivi, giustamente, lo osservi. Così come mi piace che ugualmente concluda che D’Annunzio insegua consapevolmente se stesso per attingere una propria identità, che però è continuamente vanificata.
“E forse aspetterò me stesso fino alla morte”, scrisse nel Libro segreto. Amata – la morte – e temuta. [Francesco di Ciaccia]
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