Spagnolo, Giovanni, 2020

Giovanni Spagnolo, Spiragli di luce. Diario poetico, Prefazione di Iosè Silvestre, Gorle, Editrice Velar, 2020, pp. 76, in Literary.it 1/2021.

Foto: Suor Maria Chiara Bonzano fdm

Testo della Recensione

Questa volta voglio iniziare dalla natura. Per il vero, sempre si dovrebbe iniziare dalla natura, parlando della poesia di Giovanni Spagnolo. Per un motivo molto semplice: perché egli guarda in continuazione il mondo esterno, quello naturalistico, e attraverso di esso egli descrive il mondo interiore, in una connessione così intima che i sentimenti umani vengono tradotti e declinati con le manifestazioni del mondo fisico, le quali ne diventano quasi il simbolo e la voce.

Ma innanzitutto vorrei proprio cogliere quei bozzetti della natura che si stagliano, come autonomi, tali da apparire fotografie o dipinti – già lo dissi, in altra sede –, nel loro vivido realismo. E sono allora le

nuvole

bianche e leggere

su cielo azzurro

baciato dal sole (25 marzo 2017);

è l’

Ultimo raggio di sole

a trafiggere

il verde del parco (14 ottobre 2019).

Alcuni affreschi sono da gustare – sì, perché, ho detto, sono fotografie o dipinti – per esteso.

Specchio terso

di limpido azzurro

la distesa del lago

incorniciata

da monti bianchi

di soffice neve.

[…]

Alta su tutto

argentea la luna

a rischiarare il cuore

nel dono inatteso

del giorno nuovo (Limpido azzurro),

in cui noto già un esempio, nell’ultima terzina, della connessione tra animo e natura.

In Mattini di pace,

timidi raggi di sole

baciano sui monti

la neve

e carezze di rosa

sfiorano il lago.

Poi, in procinto della primavera (Vigilia di primavera),

[…] sui prati

fioriscono ancora

le primule

mentre timido

il fiore di pesco

gioisce

ai raggi di sole,

in cui, questa volta, è la natura che si “umanizza”.

In Mite settembre a Carpesino:

Caldo bacio

il sole

di mite settembre

tra azzurro intenso

ad abbracciarti

e riposanti per l’anima

sfumature di verde

col cedro secolare

slanciato

verso il cielo

[…]

mentre chiacchierina

la campanella

dei passionisti

chiama

a eucarestia di luce.

Anche qui abbiamo notato che le figure naturalistiche richiamano e sono a loro volta richiamate da tensioni dell’animo. Risalta chiaramente lo slancio “verso il cielo”, un cielo baciato dal “caldo sole”, e risalta la “luce” che specifica la “eucarestia”: in questo contesto, io credo, nel senso di presenza di Cristo e propriamente in senso etimologico (da eÙkaristšw [eucharistéo], “ringrazio”). E c’è sempre l’influenza della natura sugli stadi d’animo: un punto forte, nelle liriche di Giovanni Spagnolo, e direi un canone della sua poetica. L’interazione è, qui, la varia sfumatura di “verde” che gioca una benefica suggestione sull’“anima”, favorendone il dolce riposo. Bell’esempio. E verissimo!

C’è poi da approfondire la connessione tra natura e stati d’animo, come le immagini naturalistiche diventino simbolo dei sentimenti e i sentimenti si proiettino nei particolari paesaggistici in una simbiosi per cui l’una vive delle caratteristiche dell’altro e viceversa, quasi una riproposta del panismo dannunziano. Tuttavia non esattamente. Non lo è, sul piano teorico e filosofico; ma è indubbio che gli atteggiamenti dell’animo trovano espressione nelle manifestazioni della natura.

E così l’immagine, vividissima, degli “alberi spogli” traduce le “nude speranze”, e gli alberi che s’elevano al cielo sono espressione della “muta preghiera”. Ma val la pena di vedere e di toccare, come sembra che avvenga, queste connessioni di immagini in Mattini di pace:

Nude speranze

alberi spogli

protesi verso

il cielo

in muta preghiera

[…]

In questa stessa poesia non si può tacere l’identificazione, sempre a livello espressivo, tra lo psichico e il naturalistico, ove è detto che “il cuore” è “ferito di luce”: in cui la “luce” è proprio del “sole” astrofisico – mentre il “cuore” è quello dell’animo –, e tuttavia, poiché il cuore attende “mattini di pace” che è la pace interiore e non metereologica, ecco che la “luce”, da cui il “cuore” è ferito, è un dato naturalistico e al contempo psicologico.

Un esempio splendido di questa connessione è il “concerto di cicale” (Concerto), proprio perché è esplicitamente espresso l’accompagnamento, per così dire, dei luccicanti insetti, nel parco – come quel “parco” in cui “il sole illumina / rami secolari / in verde luminoso” di Trasfigurazione –, con i pensieri (illuminanti?), e l’idea che quel concerto influisca sul flusso dei neuroni cerebrali. Leggiamo:

Ora nel parco

è concerto di cicale

colonna sonora

ai tuoi pensieri

e non sai ancora

se ferita di luce

metterà ali

al tuo cuore.

Una connessione tra stati d’animo e natura chiama in causa il Signore: il poeta non intende permettere che la “tristezza / nemica dell’uomo” devasti “l’anima mia”, che è “vigna” del Signore; ma tutto ciò avviene, quasi per una connessione inscindibile o comunque molto stretta sia pure soltanto nella sfera dell’immaginifico, con “questo giorno / privo d’azzurro / e di luce” (Morte e vita).

Al contrario, sempre con la medesima connessione,

Dilata il cuore

questo azzurro

smagliante

e il sole

ferisce tagliente

con raggi

di fuoco

[…]

Qui, in un momento di liturgia solenne (Piazza san Pietro), se compare, con una espressione usuale – lo si dice normalmente, con un’immagine d’antico sapore quasi ancestrale, “dilata il cuore” una giornata di sole! –, il rapporto con una sensazione personale, ad esso si aggiunge la relazione con oggetti materiali – i paramenti liturgici – e prima ancora con i soggetti di un rito santo, che sono

i biancovestiti

celebranti

il mistero

da ogni parte

a santità chiamati

appena sfiorati

da brezza

di vento leggero.

Nel finale si coglie ancora quasi una partecipazione della natura – la “brezza”, che richiama la presenza di Javhè dinanzi ad Elia, secondo la traduzione ora superata – alla vita della Chiesa, all’azione di “santità”.

S’è già letto il verso che qui ripropone l’usuale espressione del “cuore / [che] s’allarga” all’“ultimo / sole del giorno” (Presagio di gioia). Ma c’è anche da notare una ulteriore connessione, del resto rintracciabile in tutta la poetica simbolistica, tra mondo interiore e natura, nel senso della natura umanizzata:

Ricevono pace

le colline

baciate dall’ultimo

sole del giorno

[…],

come il “fiore di pesco” che “gioisce / ai raggi del sole” (Vigilia di primavera).

Anche qui si ripropone la realtà naturalistica come simbolo, in qualche modo, della vita liturgica, per cui la “speranza” cui s’allarga il cuore è, nei “colorati tramonti / di Avvento”, “presagio di gioia”: sembra che anche la natura, e l’uomo con essa, partecipi all’attesa cui prepara l’Avvento, l’attesa della “gioia” che è in Gesù che nasce – con la sottesa coincidentia oppositorum tra il tramonto (del giorno) e l’alba (della vita di Cristo).

Ancora in Semi di resurrezione ritorna il connubio tra mente e corpo, natura e spiritualità, o, per essere più precisi, momenti di vita liturgica. La coltre bianca che davvero stupisce ed affascina, soprattutto se il sole la illumina, ha accanto un cuore che “la avvolge / di candida luce”. C’è dunque la natura, ma vi è simboleggiata l’anima che al momento attende, quasi a riposo sotto la neve, per poi sfolgorare nella “resurrezione”. Ma già l’attesa, cioè il riposo dell’animo, è un dolce momento, quasi un incanto, avvolto nel presagio della nascita.

Mi sembra utile cogliere anche, oltre le superbe realtà naturali come il sole, l’azzurro del cielo, la pioggia battente, il grigiore nebbioso che nasconde il panorama e rattrista i cuori, anche le realtà umili, i piccoli esseri che pure ispirano tante sensazioni: persino nelle loro modeste quotidianità misconosciute o ignorate. E sono

[…] i papaveri

sui bordi

di strade e ferrovie

a colorare di rosso

il giorno

[…]

e tenere margherite

sfidano l’asfalto

per gridare

gioia di esistere (Stupefatto mistero).

Ecco dunque come i piccoli fiori in un contesto insignificante e inosservato sono proiettati verso gli animi umani: “gridano” essi, ma ciò significa che fanno gridare gli umani, la “gioia di esistere”. Poi tutto questo insieme di movimenti dalla natura all’uomo e dall’uomo verso la natura si assomma in un unico battito dell’anima: il ringraziamento all’Amore, che è Dio – secondo l’apostolo Giovanni –, il quale ha “seminato” – un termine riferibile ai fiori sul piano letterale – i fiori e ha seminato, nel senso figurato, cioè ha collocato, gli uomini sulla terra fiorita. Quindi, tutto ciò è “dono dall’alto” (Dono) – anche se fosse solo quel “gioire di luce / tra gli alberi / al mattino” –, è dono dato

a poveri in cammino

in affannosa ricerca

di approdi vicini.

Qui si conclude la breve e veloce riflessione sul rapporto tra l’umano – psicologico e spirituale – e la natura. Si conclude, avanzando però – in affannosa ricerca? – verso interrogativi che sono questi: qual è la condizione dell’uomo, sulla terra? Qual è la richiesta dell’uomo, nella sua condizione che è qui, sulla terra? E quali sono gli “approdi”?

La condizione dell’uomo sulla terra è quella dell’andare. Se si sta fermi, non si va; ma se si va, bisogna sapere dove si va. Il “dove si va” è riproposto dalla domanda: “qual è la richiesta dell’uomo”, dell’uomo che va?

Sì, perché la situazione è comunque quella: l’andare. È l’“ineludibile cammino” (27 dicembre 2018). Chi nasce già arrivato, non va perché non ha da andare. Ma nasce arrivato solo chi, prima di nascere, ha già raggiunto lo scopo per cui è nato. Ma chi, prima di nascere, ha già raggiunto lo scopo per cui è nato? Non è l’uomo comune. Per tutti gli altri, c’è da andare. E quale andare, se non “per ignoti sentieri / e strade tortuose”? Così declina il poeta “questo andare”, anche se ciò è “in cerca / di luminoso approdo”, soprattutto quando “all’orizzonte” si staglia “il tramonto” (Mandorlo in fiore).

Ho esordito con queste righe che illuminano “oltre i cipressi”, cioè oltre i simboli sepolcrali, luminosamente il “luminoso approdo” – e insisto volutamente su questo semantema, anzi, proprio sul sintagma “luminoso approdo”, perché le raccolte poetiche di Giovanni Spagnolo ne sono trapuntate: trapuntate come il cielo di stelle. Ma ora vediamo questo andare, il movimento dell’uomo, e dell’anima, che procede e dove esso procede.

L’uomo che procede – l’uomo che vive sulla terra, cioè nella carne – è un uomo che conosce la compresenza di bene e di male. Anzi, male e bene, cioè, in senso generale, il negativo e il positivo non sono soltanto compresenti. Sono interconnessi. Anzi: inter-uniti. Questa congiunzione intima è la coincidentia oppositorum, l’“unione dei contrari”. Non ho in mente la valenza che questo concetto ha in Niccolò Cusano, se non per quanto è applicabile alla sfera esistenziale – l’ambito che noi qui consideriamo.

La continua esperienza del positivo e del negativo, cioè di luce e ombre (14 ottobre 2019), di vita e di morte, della gioia e della stanchezza (27 dicembre 2018), di speranza e delusione, dell’attesa e del rimpianto è la costante dell’opera poetica di Giovanni Spagnolo, quasi che l’esistere – ripeto, l’esistere nel corpo – non sia se non il perenne bacio – come venuto dal cielo o dal profondo di sé – di questo avvicendamento: che non è una disgrazia, e non è neppure una fortuna. È come una grazia che né meritiamo né possiamo demeritare: è intrinseca all’andare, è interna alla natura dell’essere nel corpo.

E questo essere nel corpo è qualcosa che non va né studiato, né va vivisezionato: va vissuto per come esso è, va vissuto per come ci è dato, per come esso ci viene donato.

Però, vediamo ora l’aspetto di morte, il lato di negatività di questa convivenza dei contrari.

Il brano più esplicito è, nella sua concisione icastica, quasi un manifesto esistenziale e morale insieme; anzi, spirituale. Ed è il seguente, in Morte e vita:

e forse capirò

che è vita

tutto ciò

che muore.

Questo apoftegma – il cui concetto si ritrova anche in “si muore / ogni giorno / per rinascere” di Porto sconfinato –, ha una potenza, dicevo, icastica: in immagine si vede, quasi rappresentato, per esempio, un torso di mela che con il seme sta marcendo sotterra mentre da esso sta germogliando un virgulto di melo; ma al contempo racchiude un capitolo di filosofia morale e di spiritualità cristiana, oltre ovviamente di psicologia e di biologia. Qui però ci fermiamo un istante soltanto sulla dimensione esistenziale, su cui verte il discorso. Allora vediamo che l’abbattimento dell’animo ritempra la speranza, dopo che la desolazione è stata abbracciata, cioè sussunta con viva pazienza, e vediamo che l’angoscia del Golgota – per riandare all’esperienza che fu di Gesù nella carne – rende poi maturi per l’offerta totale di sé all’“aspettazione” (per servirmi di un efficacissimo D’Annunzio della “favilla” “Scrivi che quivi è perfecta letitia” de Il venturiero senza ventura, in visita ad Assisi il 13 e 14 settembre 1897) della vita e della resurrezione. Dice il poeta:

attenderai

nel buio

la luce (Ostinata speranza),

che anticipa l’ultimo abbraccio (Ultimo abbraccio)

di giorni convulsi

sospesi

su abissi

di tenebre e luce.

Il “buio”, in questa circostanza, è prodotto da quello che è un sentimento, spesso rammentato in questa silloge poetica, che rimanda ad un bene, ad una bontà-bellezza che sono stati e che sono finiti: il sentimento della “nostalgia” – che vedremo ancora. La poesia ha un antefatto circostanziale di aspra realtà – pronosticata con un incipit che mi richiama quello funereo del Pavese di “Verrà la morte / e avrà […]” – il cui finale è però, come sempre in Giovanni Spagnolo, quello della “luce”:

Verrà l’inverno

a stringere

il tuo cuore

con funi

di ricordi

e alla tua porta

busserà

la nostalgia

mentre

in ostinata speranza

“attenderai”, appunto, sempre la “luce”, che poi è confermato in Mattini di pace:

[…] il cuore

ferito di luce

attende pur sempre

mattini di pace.

Ecco quel che abbiamo accennato, e che il poeta annuncia e proclama innanzitutto a se stesso: nel “buio” dell’animo e del Golgota – era notte, benché serena e placida, di fuori – si annuncia – ed è quindi da attendere con paziente sofferenza – la “luce” della resurrezione dentro e fuori di noi. Il poeta puntualizza esplicitamente l’avvicendamento, con chiaro ottimismo, indicando proprio in Via crucis il positivo di questa condizione,

sapendo che

dietro ogni nuvola

di venerdì santo

sempre splende

il sole di Pasqua.

Ma è inevitabile che la coesistenza degli opposti comporti, sul piano fenomenico-esistenziale, un andamento che somiglia all’“altalena”. In un connubio tra naturalità o condizioni fisicistiche e interiorità o stato d’animo affogato, come sempre nella poetica di Giovanni Spagnolo in cui esso è fondamentale e come istintivo, l’alternanza è leitmotiv come chiaramente espresso in Vigilia di primavera:

in altalena

[…]

[di] illusioni e speranze

con l’anima appesa

a tenue

filo di luce

[…].

Ma è ora di chiedersi un particolare sulla incidenza della luce, come è ad esempio in Mattini di pace: la luce che ferisce.

Di norma, come nella presente raccolta, la luce illumina, infonde sicurezza e consolazione, non si contrappone alla “pace” – che “pur sempre” è attesa dal cuore. Eppure, la luce può veramente ferire, far male all’animo, perché “Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera”, come dice Quasimodo.

L’effetto afflittivo – l’esserne trafitto è un ferimento che passa da parte a parte – di un elemento cosmico che è tra i più belli e piacevoli e di per sé consolanti, dipende dalla situazione in cui si trova il “cuore”. Nel caso di Mattini di pace, a differenza, a mio avviso, di Ed è subito sera il “ferimento” non ha valenza totalmente negativa. Tuttavia, certo è che quel momento di “luce” fa male, produce un intimo disagio. Il perché è poi da assimilare alla causazione che si riscontra, per l’appunto, in Quasimodo – e per questo vi ho fatto riferimento. Il perché ognuno lo capisce: perché “è subito sera”, la vita, anzi i singoli movimenti del cuore, volgono velocemente al tramonto.

Ma intanto notiamo – s’è detto – che la luce di per sé non ferisce; anzi “abbaglia”: “con lo sguardo / abbagliato / di luce (Miraggio).

Però, non ci si illuda facilmente. Se a prima lettura il bagliore richiama il positivo, la luminosità, la visione piena, la gioia, ad una lettura più profonda non sembra che sia tutto rose e fiori. È un bagliore che, anche qui, ferisce un po’, un po’ fa male, non direttamente e in prima linea, ma nel sottofondo dell’animo: è come se si rimpiangesse qualcosa di buono che si è avuto e che è divenuto un rimpianto. Addirittura, il “cuore stenta a credere” (Stenta il cuore): l’animo è disorientato, direi quasi sconvolto, ora che “Mi sveglierò / […] / a mani vuote / in questi mattini / di maggio”, stenta a credere come sia così “mutata stagione” da

quando

abissi di luce

apriva il sorriso

e dolci parole

di leggerezza

avvolgevano i pensieri.

“Lo sguardo abbagliato” di Miraggio è un movimento come di nostalgia. E infatti quel che segue supporta questa situazione:

in questo andare

nel deserto

del cuore

fra un miraggio e l’altro

che ripresenta il movimento dell’“andare” e ripropone la condizione di aridità solitaria, il “deserto”.

Ed ecco finalmente il deserto! È qui che volevo arrivare.

Ma prima del deserto c’è “l’orto degli ulivi”. Che cos’è l’orto degli ulivi, se non il tempo dell’afflizione, dell’essere obliati persino dai cari, dai compagni, dai discepoli, dai più intimi? L’orto degli ulivi è il clou della tristezza: è il momento in cui si vede il presente che è morte del passato e si ha “nostalgia” di ciò che non c’è! È Gesù che va al pensiero della gente che lo ascoltava, che lo seguiva, che lo cercava, che lo costituiva presente nel mondo. L’Orto degli ulivi è struggente, per chi sa ben leggere: “Attingerò”, attingerò a ciò che è stato e non è, sartrianamente quindi al nulla esistenziale, addirittura

a piene mani

[…]

[ai] ricordi,

mio viatico,

e il cuore

trasalirà di gioia

reduce

da interminabili notti

nell’orto degli ulivi

dell’anima ferita

[…]

nel dolore

di ciò che finisce.

Ora che siamo qui, in mezzo al deserto – che è anche un “orto degli ulivi” – ed investiti dalla dinamica dei “ricordi” e dal vortice della “nostalgia”, soffermiamoci un momento su questo nevralgico nodo. Soffermiamoci, perché è un nodo importantissimo e, potenzialmente, dirompente: o per l’elevazione dell’anima, o per la sua lacerazione. Per cui mai s’ha da abbandonare la speranza, si deve cercare, sempre, di aspettare la luce, come in Pertugi di speranza:

Lascerò aperte

le porte del cuore

pertugi di speranza

a irrompere di luce

quando nostalgia

[…]

I giorni si snodano, ineluttabilmente, in “nostalgia”, direi che si snodano nell’assedio della nostalgia. L’assediante non lascia uscire, non fa andare oltre. Blocca dentro, ed è “compagna”, dice il poeta, come in un maniero “tra legna e pietra”, tipicamente castellani oppure cenobitici, aspettando proemi ed epiloghi – sempre momentanei –, riprese e declini, “albe e tramonti / del mondo nuovo”.

Indubbiamente l’atteggiamento è nella “speranza”, lo sguardo è sul “mondo nuovo”, ma non va per questo sottaciuto l’assalto – ho detto assedio, prima, ma c’è anche un margine di violenza, se la nostalgia monta nell’animo ed investe, quindi invade. Non va sottaciuto, rifiutato o negato questo assalto, perché sottacerlo non è cosa limpida, rifiutarlo è rischioso e negarlo, nel senso della rimozione, è deleterio.

Produce disastri.

La nostalgia è qualcosa che ha afferrato il nostro vissuto con tale fortezza e dolcezza, che rivediamo, riproviamo, lo riviviamo. Prenderlo a carico, riconoscerlo e al contempo continuare ad andare avanti ha una strategia che si declina in ognuno in modo diverso a seconda della propria situazione (la condizione esterna) e del proprio carattere (la condizione interiore). Il poeta, qui, va “a modulare / litanie di santi”: che non è cerimonia, emissione di suoni, pronuncia di segni linguistici (cioè di parole) o anche scorrimento di immagini mentali (φάντασμα, il phàntasma della gnoseologia scolastica). Infatti, ciò che opera in un vissuto è solo e soltanto un altro vissuto – quindi non l’emissione di segni linguisti e neppure l’immagine mentale, ma, ho detto, un altro vissuto –: è esso che agisce (da agere, “condurre”, “far andare avanti”) un movimento interiore del profondo dell’io. E allora le “litanie dei santi” diventano con-vivenze, cioè vissuti-in-unità-con, diventano vite (nello spirito) condotte insieme con coloro che ci hanno preceduti e che ci hanno preceduti per attenderci o, come dice un testo del Buonannuncio (eÙaggel…a [euanghelìa] o eÙaggšlion [euanghèlion], da εὖ, “bene”, e ¢ggel…a, ¢ggšlion, “notizia”, “annuncio”, da ¢ggšllw, “io annuncio”), ci preparano un “posto” – non spaziale – nel “regno – non geofisico, non geopolitico – del Padre” e, mentre ci attendono, ci accompagnano, cioè con-vivono insieme con – anzi in-noi.

Qui si aprirebbe un interrogativo che qui, però, non viene richiesto e che quindi, qui, non va aperto: dove sono, nella realtà effettuale, questi “santi”. Se sono con-in Dio, dove è Dio? Ovviamente, non in un dove. E allora? Vedremo.

Se la ripresentazione esistenziale è calzante, essa non esaurisce il percorso del nostro poeta. Ma intanto un cenno a questa dimensione interiore del ricordo, appunto “viatico” – quasi il sollievo verso la fine di un segmento di vita – quando

[…] dolci parole

di leggerezza

avvolgevano i pensieri (Stenta il cuore).

E che cosa di più struggente dell’Eden incontaminato della fanciullezza, della giovane età – io ci ho scritto poesie, e mi si perdoni l’inopportuna intromissione –, quando tutto esisteva nell’intimo, in quanto non era manifesto l’inganno, non era nota la delusione dell’esistenza? Allora “ridammi” – è la Supplica vespertina –:

E ridammi,

Signore,

te ne supplico,

il sorriso

degli anni giovani,

quando il cuore

volava

su onde di luce

e lievi erano

i passi

che portavano gioia

[…].

A fermarsi qui, si avrebbe il “Verrà la morte / e avrà i tuoi occhi” – sugli “occhi” si dovrà tornare – di Cesare Pavese. Ma non finisce qui.

Non finisce qui, perché il cammino procede, e procede sempre verso la luce, perché continua a primeggiare, direi a troneggiare – come suonano i martellanti semantemi seguenti – il “cuore / assetato di luce” (Sensazioni).

Questa storia interiore è scandita, in immagini o quasi in bassorilievo, in una delle più vivaci liriche, Rosa di maggio, in cui il colore rosso è colore di sangue e sboccia – non dalla terra ma dal cuore bagnato di pianto – e in effetti non c’è fiore che non sia innaffiato. Pianto, e poi “timida / brina notturna”: dettaglio naturalistico di particolare delicatezza. Non so a quali stati d’animo corrisponda, per il vero, ma possiamo azzardare che si tratti di un sentimento di conflittualità – pianto e sangue – mitigati dal Tu: che “sa tutto”. E questo è balsamo. Ed è qui la definizione di sé: “cuore / assetato / di luce”.

Ora però dobbiamo ancora seguire quel cammino, come s’è già detto prima; e seguirlo in tutto e per tutto, perché quel cammino è un cammino umano, che riguarda tutti, ed è un cammino di estrema importanza, perché, come pure s’è detto, conduce al bene: il bene finale. Alla luce.

A volte, anzi, no; spesso, molto spesso, anzi no: troppo spesso è un cammino in mezzo al deserto.

Una lirica di Giovanni Spagnolo è come un affresco delle diverse componenti su cui ci stiamo intrattenendo: dal deserto dell’animo in una luce che abbaglia alla pulsione della speranza, su cui torneremo senz’altro, una speranza che tuttavia, proprio tra la luce accecante e il deserto, si colora ambiguamente di illusione, o di timore che sia illusione. E ciò è tremendo: l’ho detto. Il “naufragare di speranze”, quando il “cuore” “rincorre / sogni arenati / su spiagge di gioia” (Orgia di colori), è cosa tremenda: la speranza che è già stata – a volte così essa è stata, o così è ci apparsa –, la speranza delusa è un grosso rischio, un pericolo grave; se non imminente, è un pericolo che può abbattere e annullare tutto, “tra sguardi sfuggenti / e vuote parole”, in cui, in Carezze di vento, così si dice:

In questa attesa

del nulla

[…].

Solo a tratti

in oasi di verde

carezze di vento

profumato e leggero

sfiora il tuo volto

annunciando

non lontano […]

meriggio di luce” (

Ed ora la poesia del deserto, appunto Miraggio:

[…] con lo sguardo

abbagliato

di luce

in questo andare

nel deserto

del cuore

fra un miraggio e l’altro

[…].

Il deserto. Difficile illustrarlo a trecentosessanta gradi – difficile, perché appunto sconfinato –, è però facile in queste stringate righe, così stringate da essere profondamente vaste, di Resegone in festa, una lirica che dovrebbe cantare soltanto la gioia:

[…]

a coprire

dolori recenti

velati di silenzio

in questo deserto

di relazioni

e sentimenti.

Invece “copre” – come la neve sul Resegone – “dolori” e “copre” l’assenza.

Il bisogno di tenerezza – probabilmente, anzi certamente cresciuto nel grembo materno, tant’è che lo si riscontra in qualsiasi cucciolo, non solo nella specie umana ma anche nelle specie dei non razionali – è il bisogno fondamentale. Direi originario. È originario, in quanto e nel senso in cui cibo e respiro assumono per l’umano una qualità peculiare grazie alla tenerezza: assumono la qualità della gratificazione interiore. Probabilmente, la tenerezza si collega con l’unione affettiva e forse la richiama peculiarmente. Però, se si vuole escludere questa precisa esperienza – e la si esclude, nel “chiostro austero” (Invisibile carezza) –, escluderla anche nelle altre espressioni di vita comporta un esito irrevocabile. Mangiare e respirare come animali, sicuti pecudes.

Il discorso qui non ci chiede di farne cenno, ma non ci si può esimere, in una pur esile nota ad un scritto di un confratello dell’Ordine francescano dei cappuccini, dal menzionare un altro frate, il primo che ci ha preceduti. E qui mi permetto di riandare all’icona che mi sono formato di san Francesco. Non quella del Poverello, indubbiamente sua caratteristica essenziale ma strapazzata di qua e di là in tanti secoli da tante bocche che lo pronunciano di tanto in tanto, per compiacerlo. Non quella dello stigmatizzato – fondamentale, come vissuto della croce agita –, purtroppo usata per far di lui proprio ciò che lui non voleva: inimitabile (quindi tenuto fuori come nella parabola della “perfetta letizia”). L’icona di Francesco è quella che, su un lato, distribuisce tozzi di pane nero, quello plebeo, ai trionfanti commensali del cardinale Ugolino – un gesto strettamente parenetico non di pauperità, ma di minorità, di abbassamento dei detentori ecclesiali di autorità, cioè del loro adeguamento alla condizione della servitù – e dall’altro lato accompagna il frate, attanagliato da crampi allo stomaco per inedia, nella vigna dell’orto a piluccare con lui grappoli d’uva. Oh delicatezza di umanità, oh tenerezza di maternità, squisitezza di amorevole carità!

Qui allora mi sovvengo, come per inciso ma non per frivolezza, della definizione lapidaria di Giovanni Spagnolo: “L’amicizia è una maternità”, ricordando Giorgio Bonati (1864-2019), frate cappuccino, secondo cui, come afferma Don Luigi Verdi, “sapevamo che la fraternità fa bene e volevamo offrirla a tutti” («Fra Noi – Notiziario. Provincia dei Frati Minori di Lombardia», 89, Dicembre 2020, p. 16). Ed ora prima di riprendere il pensiero sulla fraternità materna, mi piace sottolineare il bisogno, qui indicato, di espandere il bene goduto offrendolo a tutti: mi ricorda il desiderio di santa Teresa di Lisieux per quando non sarebbe più stata nel mondo e che trovo nella prospettiva di Giovanni Spagnolo in Semi di gioia a proposito delle “perle /scaturite / da abbraccio / di luce”:

Poi in dono

le offrirò

all’Eterno

[…]

a innaffiare

semi di gioia

nel giardino

del mondo.

Certo, si può sperimentare l’intimità familiare di Gesù nel proprio profondo insieme con l’Abba nella Spirazione amorosa, dato che “verremo in lui e abiteremo in lui”. Per viverla, tuttavia – non per saperla: viverla è tutt’altro –, occorre un percorso di totale silenzio e di completa “notte” – che altri hanno ben esposto, fortunatamente. Qui parliamo d’altro, come queste liriche richiedono. Quel silenzio non ha a che vedere con l’“impenetrabile / muro” che è un silenzio di fraterna umanità – e su ciò ritorneremo –; per “abbattere” quel muro si sperano “lame di luce”, proprio quelle del nostro sistema solare, e sono “carezza” persino i “timidi squarci / di sole e di azzurro” (Invincibile carezza). Di quanto poco avremmo bisogno! Addirittura “bastano / frammenti e briciole / nel cammino”, per un “questuante di speranza” (Viandante di Emmaus).

Tuttavia bisogna precisare che le immagini di Invincibile carezza, quelle lame di luce solare, sono, pur sempre, gravide di senso metaforico. La luce del sole rimanda a quel calore che illumina con la conoscenza dell’amorevolezza fraterna e riscalda con il sentimento della fraternità amorevole. Su ciò si tornerà. Ma qui vale anche la pena di tornare alla considerazione del “cuore”.

Quando si dice che l’unione dell’anima con Gesù è tale da riempire il cuore, si dice una cosa che è vera. Ma bisogna vedere in che senso è vera. È vera, se questa unione è una effettuale cumunione, “comunione” [= “unione-con”], ed è effettuale se è un vissuto e non un pensato, una formulazione mentale. Il pensiero di “Gesù con me / con noi” è un contenuto mentale, un saperlo; non è una modalità d’essere, un viverlo.

Poi però il viverlo non va associato alla dimensione emozionale. L’equivoco, e il pericolo, sono qui. La “cumunione”, l’intimità vissuta, come bene è stata indicata da chi ne sapeva, avviene nello spirito. Non nella emozione. Certo, essa dà gioia e gratificazioni interiori, per essere sufficiente all’io; ma non consiste in movimenti emozionali nel senso affettivo-sensibili. Il confondere le due sfere è operazione di trasferimento dell’oggetto libidico. La sfera emozionale va vissuta con contenuti emotivi, non già con contenuti che emotivi non possono essere in quanto sono spirituali. Ecco dunque la “fraternità” profondamente sentita, la sensibilità ad esempio di frate Francesco d’Assisi. Essa non è spirituale: è psicologica. Spirituale lo è nella modalità d’essere per la quale tutto ciò che è umano può essere finalizzato alla vita di Dio in noi e di noi in Dio; ma il suo eidos, la sua essenza non è spirituale – nel senso ontologico del termine. È per tal motivo che si ha bisogno anche di vivere i sentimenti, le emozioni. E allora

Un giorno ti dirò

la sorgente segreta

delle lacrime

che sono sul viso, che arrivano al cuore. E “capirai perché […]”. Perché, che cosa?

Qui, un altro punto focale: i “tuoi occhi”. Gli occhi!

Gli occhi sono collegati alle lacrime e costituiscono quel binomio di negatività-positività che è dichiarato dal poeta stesso: per crucem ad lucem.

Orbene: ci sono occhi e occhi. Gli occhi miei, quelli delle “lacrime”, le “lacrime mie” (27 dicembre 2018): sono quelli della sofferenza e del “dolore” (27 dicembre 2018).

Gli occhi tuoi sono quelli della “luce e dolcezza”, quelli che arrecano gioia al viandante “pellegrini e stanco” (27 dicembre 2018), quelli che illuminano la notte del cuore “nel gelo di giorni incerti” (Giorni incerti).

Persino quando gli occhi tuoi sono avvolti da un “velo sottile / di malinconia”, sono “gioia / di ritrovata armonia”, sono tuttavia “circondati di luce”; e sono sempre diffusori di “pace” “nel cuore” con la benefica “gioia di ritrovata armonia” (Luminosa malinconia).

Ora, bisognerebbe scoprire “la sorgente segreta” delle lacrime; quella sorgente che però non è rivelabile, perché, appunto, segreta. Ma io credo che, se il segreto è segreto, non lo è più dinanzi ai “tuoi occhi”, esattamente alla loro “luce” che “abbaglia” l’anima “sempre in cerca / di luminosi approdi” (Lacrime e luce). E con ciò il segreto non è più un segreto: si sa che la “sorgente” è in quella ricerca che non è mai finita, e non è mai finita perché può sempre cessare di esistere.

Ecco dunque la ragione delle “lacrime”: la dis-armonia. Infatti, se la gioia è la “ritrovata armonia”, la sua negazione è negazione dell’armonia.

L’armonia, e altrettanto la sua negazione, riguarda il profondo di sé. Non consiste in qualcosa di esteriore, quale si dà nell’estetica, nella musica, nella vita sociale. La armonia (dalla radice ar-, da cui il greco ἁρμόζω [harmόzo], “unisco”, “dispongo in accordo”, da ἁρμόj [harmós], “giuntura”, “punto di congiunzione di due parti [del corpo]”) a riguardo dell’io consiste nel collegamento tra la tensione interiore e la propria personalità: è l’unità di sé come bisogno profondo e di sé come natura individuale, configurata sinteticamente proprio come “unità armoniosa” (Porto sconfinato). Non ho parlato di “aspirazioni”, come pur verrebbe non incongruamente da tradurre questa “tensione”, perché con il termine “aspirazioni” si pensa a desideri che si presentano nell’animo.

La “tensione profonda” è la richiesta che sta nel profondo dell’io e che ne scaturisce: scaturisce, cioè, dalla propria identità che fa di ognuno, appunto, se stesso. Certo, ogni io umano ha nel proprio interno istanze comuni a tutti – che sono antropiche. Poi però ciascuno ha peculiarità proprie. E per “effettuazione” si intende la situazione storica, reale, nella quale questa tensione è soddisfatta – ed è quando si dice, come nel linguaggio usuale, che un umano è felice; o, come si suol dire con espressione più esatta, in pace con se stesso.

Da qui si comprende il senso e il valore della “attesa”. Anche questo, un semantema ricorrente nelle liriche del nostro poeta. Ma se l’attesa è di ciò che non si ha – altrimenti non si starebbe ad aspettare –, bisogna considerare se l’attesa è con fiducia, con disperanza, o con certezza. L’attesa di Giovanni Spagnolo, sempre nella raccolta poetica, non è disperante – la “attesa /del nulla” di Carezze di vento è oggettivata sul contingente. È confidente. E vedremo se è rassicurante.

Abbiamo già accennato al sentimento dell’attesa, ma in Oasi di luce essa si colloca proprio in quell’ambiente esistenziale cui sopra abbiamo insistito un po’: il deserto. Ed è tutto dire! Siamo nella desolazione della aridità, dentro e fuori, di animo e di umani,

con rari approdi

in oasi di luce

aspettando pur sempre

[…].

Vedremo che cosa.

“Pur sempre” è un’espressione avverbiale già vista, in questa raccolta, ed esprime la tenacia contro l’avverso, la volontà di resistere, la certezza, per la speranza che non cede, di ciò che dovrà essere. Ciò che il poeta, sempre in Oasi di luce, attende è

gravido di speranza

insperata

fioritura di gioia.

Ecco dunque a che cosa è aperta la speranza!

Tuttavia non si può nascondere un nodo che appare come un groviglio: la “fioritura di gioia”, che è poi il termine della “speranza”, è “insperata”. E ciò fa riflettere.

Fa riflettere su ciò che il poeta ha spesso insistito, in tutte le sue composizioni: l’“approdo”, cioè il temine finale della vita, o quanto meno i vari traguardi cui si guarda nella speranza durante la vita, è pur sempre – viene anche a noi questa forte espressione avverbiale – il finale da raggiungere, mentre si sta “camminando”, e camminando nel deserto. Non solo: un deserto che a volte, invece che aridità, presente addirittura qualcosa che sa di avversità, o, peggio ancora, di incomunicabilità. Leggiamo:

Anche oggi

parole inespresse

si arrestano mute

davanti a inatteso

muro di fretta (Trasfigurazione).

Anche il “muro” è inatteso!

L’insistenza sta a inferire che, durante tutto il percorso della vita, della nostra vita nel corpo, nulla è certo, nulla è una volta per tutte, una volta per sempre: la terrestrità è tutta nella incertezza, sia nella dilatazione della speranza, sia nella chiusura della freddezza o della indifferenza – la fretta!

E, a volte, anche per un semplice ed ingenuo, ingenuo come quello del fanciullo, bisogno di un “cuore” aperto, si incontra difficoltà e respingimento. Non è semplicemente una questioncina di poco conto, un problema di minore importanza. So bene che le problematiche, a livello di sfere superiori – per dirle così, come comunemente si dice –, sono più impegnative, diciamo teleologiche – cioè nel senso della progettazione sulla finalità. Ma anche le esperienze minori – quale qui mi pare di individuare – attingono la loro rilevanza, in quanto e per il fatto che ogni piccolo sobbalzo nella nostra vita ha una rifrazione nella sfera più intima, con risultati che possono giovare, oppure che al contrario possono nuocere, alle più profonde istanze dell’anima. Certo, le sfere sono pur diverse; ma è pur vero che è difficile estrapolare, nell’esperienza del vissuto, la sfera del sensibile da quella del non-sensibile, cioè dello spirituale. Ecco dunque che qui, verso la fine di questo nostro breve e stentato tentativo di parlare della presente silloge poetica, ho voluto insediare una lirica che di per sé e direttamente non attiene all’approdo finale. Un approdo cui andremo tuttavia subito dopo. Sentiamo il poeta, in Invalicabile muro, mentre “l’anima / […] ondeggia / in faticosa / ricerca di pace”:

Ma il silenzio

è invalicabile muro

a frenare

illusione d’approdo

nel tuo cuore

porto di pace.

Sembrerà strano che ci si avvia verso gli “approdi”, o forse proprio verso l’“approdo”, partendo da qui, dal “deserto”, di cui poco sopra, e dal “muro”, l’apice della negazione. Ma è proprio così! E così per il poeta. Ed è così, perché sia chiaro, per tutti, che si procede verso la “luce”, il termine finale, soltanto attraverso la “croce”, attraverso il negativo, la sofferenza, la delusione, il dolore. E siamo allora, come ho annunciato, alla svolta definitiva, al momento in cui s’intravede l’incontro, come un “ubriaco di gioia” (Ubriaco di gioia):

Al tramonto

mi siederò

sulla soglia

dell’Infinito

impregnato

di luce

a scrutare

l’orizzonte

in vigilante

attesa

della tua venuta

e dirti grazie

ubriaco di gioia

Risuona letteralmente l’attesa vigilante della parabola sulla venuta improvvisa dello “sposo”, o, oltra la metafora, del Signore. Ci si potrebbe anche augurare che ciò abbia ad avvenire “al tramonto”; questo non possiamo stabilirlo, ovviamente, ma se ormai ci si è già, appunto, al tramonto, si può ben ringraziare anche per il tempo che è stato donato. Ma il “grazie” è per altro, soprattutto: per la gioia che ci ubriaca!

Ci ubriaca, perché viene il Signore?

Ma non viene, se non è già.

È questo che pensavo, quando dicevo: dove è Dio?

In questo veloce finale, dopo una veloce lettura del presente libro poetico, piace vedere – ed è quasi uno stupore, ma in realtà tutto si vede connesso, se abbiamo visto bene in questa breve lettura – come si trovino connessi molti elementi del vissuto che ci è stato offerto dalla lirica di Giovanni Spagnolo. E allora, emblematicamente in Silenzio:

Mi nutrirò

di silenzio

con avidità

di anacoreta

[…]

Innanzitutto, il silenzio. È un silenzio all’opposto di quello che abbiamo già visto più volte, in questa raccolta, quello di Invalicabile muro, di Invincibile carezza, di Resegone in festa: silenzio di relazioni umane, silenzio di fraternità, silenzio di comunicazione. Qui il silenzio è quello dell’“anacoreta”, e magari del contemplativo. Il silenzio dell’anacoreta, anzi del contemplativo, è il silenzio delle cose, il silenzio delle sensazioni, delle immaginazioni, anche della memoria e della intellezione, il silenzio di tutto il terrestre, corporale e psichico, il silenzio della “notte oscura” quale è stata stupendamente esposta da Giovanni della Croce e che ci fa scendere nel più profondo dello spirito in cui “dimora” Dio. Ecco, dove dimora! Se infatti il “(Colui) che è”, l’“Io sono”, cioè l’Essente è nell’ente in quanto lo fa sussistere, nello spirito dell’essere umano è l’Ospitato (“e prenderemo dimora”): non nella sfera psichica, non nella sfera psicologica – nelle quali sfere gli “ospiti” sono e devono essere altri –, ma nella sfera spirituale – che è appunto la sfera non-terrestre, che è stata anche detta “apice dell’anima”.

Da lì

scruterò

l’orizzonte

semmai

fruscìo di sillabe

[…]

Con il poeta necessariamente procediamo per simboli. E non stiamo ad analizzare questo sguardo lanciato lontano… Di certo si può immaginare una tensione dell’anima, ma ciò che credo più rilevante è quel che segue, quel

fruscìo di sillabe

non dette

[…]

E qui il silenzio cade a puntino, perché quel fruscìo ricorda la “brezza leggera” del testo biblico, che, secondo una traduzione superata in quanto errata, è stata sostituita dalle seguenti: “mormorio di vento leggero” o “mormorio lieve” o, come sostenuto anche da Gianfranco Ravasi attualmente cardinale, “voce di silenzio sottile”.

Ecco dunque in qual modo si manifesta la presenza del Signore: nella “voce” – voce, in quanto semanticamente comunicante, cioè avente un contenuto significativo – che però è “silenzio”, silenzio del mondo, di tutto il sensibile e terrestre, persino dello psichico e del mentale, è un lόgoj (logos) ma non è logikόj (loghicòs), cioè deducibile, sillogistico. È “sottile”, a indicare metaforicamente lo spirito, che appunto, come è stato segnalato prima, non è terrestre, cioè né sensibile, né immaginativo, né psichico, né mentale, né intellettivo.

Ma il rilievo che colpisce di più è nel “non dette”: “sillabe / non dette”. Parole non dette. Si tratta, continua il poeta, di “frammenti del Verbo”.

Gabriele d’Annunzio, chiedendosi in Contemplazione della morte (già in Taccuini, LI, 1907) se “Cristo ha veramente detto tutte le sue parole?”, si chiedeva quale fosse la “parola” (di Cristo), appunto ancora non detta, che gli dicesse chi egli fosse nel senso più profondo di sé. In sostanza, poneva il problema della unicità di ciascuna persona umana, unicità e insondabilità, per la quale ciascun essere umano ha la sua propria ed esclusiva realizzazione da compiersi – proprio così – secondo quanto Cristo, Verbo di Dio, ha tracciato per lui (e Dio traccia per ciascuno, cioè dispone ed “opera” [il “Padre mio ha operato, ed opera”], con la “parola”, cioè con il Verbo operante).

Non è di poco rilievo, questa verità, e non c’è da fare spallucce. Gesù appariva a D’Annunzio come il Dio della lotta, della lotta contro se stesso per obbedire a se stesso, cioè a un destino immanente che doveva realizzare pienamente la sua natura individua. Tra i tanti riferimenti a Gesù sofferente, a quel Gesù del Golgota che ritornava nella Contemplazione della morte, c’era quello allo strazio di Cristo nell’orto degli ulivi, registrato nei Taccuini del settembre 1896 e poi ripreso ne «II vangelo secondo l’avversario» de Il Venturiero senza ventura, in cui egli dichiarava:

“La passione e l’orazione nell’orto mi scavano, mi penetrano a fondo, mi rivelano che la solitudine amara e il sacrifizio ebro sono la mia predestinazione vera”. E continuava: “Perché patisco io dentro me così profondamente la prova del frantoio?”.

Cito questo passaggio, perché nella raccolta poetica di Giovanni Spagnolo le immagini dell’orto degli ulivi e della solitudine sono scolpite con chiarezza e traducono quel cammino già indicato: per crucem ad lucem.

A prescindere comunque dal presupposto superomista dannunziano, una conclusione da lui tracciata sulla inesplicabilità di ciascuna persona umana è condivisibile:

“E, se voi ora per me sollevaste il velo, che scoprireste se non la vostra certezza?”, avvertiva in Contemplazione della morte, facendo riferimento al sudario della Veronica sul quale era stampata l’immagine dell’uomo “franto”, schiacciato come in un “frantoio”, sudario che la donna portava con sé e per la quale Gesù, secondo la fantasia letteraria di D’Annunzio, si era recato, “dopo il supplizio” e la morte, a casa di lei, “a parlare misteriosamente del Re crocifisso”.

La presente lirica credo che insinui quel mistero accennato – ma intendiamo in un senso umile e quotidiano, molto molto umile e universale, al di fuori delle ambizioni del superuomo –, il mistero della destinazione individuale, cioè assegnata al singolo umano che viene sulla terra, perché, dice il poeta, quelle “sillabe / non dette / frammento del Verbo”,

affioreranno

dal cuore

a illuminare

[…]

A illuminare che cosa. Vedremo. Ma intanto si nota che quel “non detto” – non detto perché non può essere un annuncio che vale per tutti, quindi non è detto pubblicamente e una volta per tutti quanti, ma è detto di volta in volta man mano che di volta in volta si presenta un singolo al mondo – è nel fondo del cuore, da cui “affiora”; ed affiora, proprio perché è un “non detto”, non sta scritto da nessuna parte, non nei codici, non nelle tabelle universali della matematica, ma neppure nei dizionari di teologia né in quelli della linguistica, ma è nel “cuore”, o meglio nel “guazzabuglio del cuore umano”, per dirla con il Manzoni; nel guazzabuglio, perché è il soggetto stesso ad essere nella ricerca, a stare su non sa neppure dove, se non su una terra certa – che è ancora più oscura del guazzabuglio – e cioè

l’abisso

in questo deserto

quaresimale.

E abbiamo finito.

Abbiamo finito, con l’unica cosa – dico cosa, perché non so dire altro – che non possiamo se non sperare, che non possiamo che desiderare, che non dobbiamo che attendere: la “dimora” in cui gridare “Eccomi Abba”. [Francesco Di Ciaccia]